Psichiatria di prossimità

Ilario Ferrara

Educatore professionale Ingegnere Informatico e dell’Automazione

Abstract

La riabilitazione della psichiatria non asilare plana oltre ogni confine. In essa non è l’estetica molto a cambiare, ma la sostanza. E la prossimità autentica, empatica e piena di ascolto attivo, è la preziosa e necessaria alleata per percorrere il semplice quanto complesso sentiero riabilitativo, che rischia spesse volte, di divenire psichiatria scolastica o peggio un malfatto intrattenimento scientifico moderno. Ma la prossimità non è solo un fare, una vicinanza spaziale, un esserci, ma un essere, che si arricchisce, muta, per mezzo dello studio, della ricerca, della vita esperita e vissuta consapevolmente, e in virtù dell’attenzione per il mondo, gli altri, sé stessi, certi che ognuno è fonte unica, preziosa e meravigliosa del e per il mondo. Riuscire a essere protagonisti della psichiatria di prossimità è un magico privilegio da poter conquistare, avendo memoria che la riabilitazione come il progresso non si trincera, non si schiera, non si chiude, né si socchiude, ma si apre, abbatte le barriere, i pregiudizi, è democratico e libero, accoglie e non esclude. Povero chi si arrocca alle proprie conoscenze e convinzioni, impedendosi di godere delle opportunità, ricchezze e conoscenze altrui, del passato, dell’oggi e del futuro.

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Etichette e contrapposizioni non si accordano con la riabilitazione

Quando si parla di psichiatria si parla anche di riabilitazione. Se si parla di riabilitazione si parla di vite. E se è vero che la vita nei suoi aspetti psichici, intrapsichici ed emozionali non è circoscrivibile, ancor più non lo può essere la riabilitazione. Come in ambito geo-politico i confini definiscono uno spazio territoriale su cui alcuni hanno il potere di agire e gestire, e la globalizzazione li supera; analogamente le tecniche, i training ri-abilitativi sono utili per destreggiarsi in uno specifico ambito funzionale, ma la riabilitazione li supera. In fondo la multidisciplinarietà sintetizza in sé il superamento dei confini terapeutici di settore in favore di una visione olistica collegiale.
Ma la vita è il futuro, è l’oggi, è un saluto al passato, o è un intreccio tra essi? Di certo in ogni tempo si declama l’avvento di un fare moderno d’avanguardia che tende a riporre in soffitta l’esistente di ieri, e la psichiatria non fa eccezione. Ecco quindi, sempre attuale lo scontro miope, ottuso, al meglio effimero, purtroppo spesso pericoloso e regredente tra fallaci verità oracolari e contrapposte. Inevitabile il ritrovarsi difronte al sempre verde quesito su quale caso fortuito, quale combinazione di astri abbia permesso fin a quel momento storico di aiutare tante persone con disagio psichiatrico, oggi si direbbe a non istituzionalizzarsi e ad includersi efficacemente nell’ambiente sociale a lui prossimo. Mentre, abbagliati spesso dall’illusione delle competenze, tanti li ritrovi ad argomentare, consigliare, giudicare e sentenziare ritenendo adeguata e sufficiente la propria conoscenza sull’approccio metodologico psichiatrico e sulla sua storia evolutiva, per poi, incespicare più volte, riuscendo solo a rispolverare notizie e immagini degradanti e giornalistiche in rappresentanza di un fare deplorevole come la gretta devianza di un concetto già di per sé discutibile, ma da contestualizzare, quale il custodialismo sancito ad inizio 900; tal’altri poi, li vedi adoperarsi per mascherare l’impaccio sventolando la bandiera del diritto alla dignità umana e impugnando a scudo il paladino di turno, come la Legge 180 fregiata del nome di Basaglia. Peccato si ignori sovente, che il pensiero di questi sia molto più della mera richiesta di chiusura dei manicomi.
Ma tant’è, e non vi è in questa occasione volontà di dettagliare e riflettere sulle tappe, le scelte e le scoperte che hanno caratterizzato realmente tale complesso e lungo processo, e neppure v’è l’avventata idea di denigrare nuovi o vecchi approcci; l’intento è osservare, scorgere e soffermarsi, (il tempo della lettura dell’articolo quantomeno), su di un punto di vista noto, ma forse troppo poco esperito o enunciato: la prossimità in ambito psichiatrico.
L’odierna coscienza pratica, teorica e legislativa ha maturato l’inderogabile necessità di progettare, organizzare e gestire interventi e ambiti integrati e idonei a dar vita alla riabilitazione psichiatrica. Da qui deriva il passaggio ad esempio, dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) alle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS) (evitando di commentare le enormi problematiche irrisolte); dalle Case di Cura alle Strutture Residenziali Psichiatriche; l’avvento di nuove figure professionali; nuovi concetti terminologici quali il rispolvero del ‘Recovery’ (…riprendersi, ristabilirsi, ritorno, recupero…di una condizione precedente… od anche acquisizione di una nuova condizione che implica dei cambiamenti rispetto alla precedente (Liberman, 2012); e la ‘Cure’ (il prendersi cura, distinto dal concetto ippocratico del curare). Definizioni di riabilitazione psichiatrica si sono susseguite nel tempo dettagliandosi, ampliandosi, specificandosi e rincorrendosi; e senza il timore di commettere abnormi inesattezze, ed evitando di riportare pedissequamente le differenti definizioni coniate dai diversi illustri autori, si sintetizza che lo scopo riabilitativo risiede nel favorire e permettere al soggetto, di giungere al più alto livello possibile di funzionalità personale e sociale, e ri-acquisire e sviluppare capacità perdute o nuove che gli consentano di integrarsi, ovvero includersi efficacemente nel proprio ambito familiare e sociale; mentre il mezzo per produrre il cambiamento necessario affinché si giunga allo scopo, è un agire che si esplica in ogni azione, gesto, parola, silenzio,… non azione, non gesto, non parola… un agire pensato, ragionato, soppesato e costantemente presente nell’arco della giornata, notte compresa ovviamente. Se ne deduce quindi, l’esigenza di garantire nelle strutture psichiatriche residenziali e non solo, la presenza di operatori con preparazione e formazione capace di assicurare alla persona un sostegno non asilare: non l’offerta di un mero ricovero e non l’identificazione ideologica del malato, ovvero della malattia; quindi osteggiare l’istituzionalizzazione e la stereotipizzazione riconoscendo nel soggetto l’unicità di una persona a cui essere prossimi in un rapporto di reciprocità.

Non estetica, ma sostanza perché la riabilitazione plana oltre ogni confine.

Riabilitazione è autonomia ed emancipazione. Si centra sul recupero della soggettività, passa per un aumento dell’autostima e giunge all’acquisizione di capacità adatte ad un’inclusione efficace nel proprio ambiente di vita e al soddisfacimento autonomo dei propri bisogni. Si avvale di un’atmosfera umana in cui coesistono ascolto, assistenza e terapia, per intercettare la realtà
singola, individuale e irripetibile. E la prossimità ne è alleata. Essenziale un’equipe riabilitativa multidisciplinare in cui conoscenza ed esperienza si completino; un’equipe che sia la guida, e essa stessa al pari e insieme al personale tutto il mezzo, che accompagna l’individuo, i suoi familiari e i caregiver, a riconquistare dignità, autonomia, capacità, autostima, socialità, per la migliore qualità di vita possibile. Il rispetto, la gentilezza, l’autenticità, la vicinanza, l’ascolto attivo, il rapporto alla pari dignità, la reciprocità, sono alcuni degli ingredienti per stimolare un necessario cambiamento evolutivo. Lo sviluppo di un percorso gentile in un clima professionale, ma familiare, in cui si riconoscono nomi, vissuti e mondi emotivi. Tutto ciò è psichiatria di prossimità.
È quel saper essere e saper fare che non ha necessità di paramenti identificativi e autoglorificanti, è quel dare a sé e agli altri la forza, la libertà, la passione, la curiosità evolutiva, il coraggio di migliorare l’individuale procedere nel mondo e la propria percezione di salute.
In altre parole, e in riferimento alle ragionevoli e possibili aspettative ambientali, potenziare abilità esistenti e latenti, fare perno sui punti di forza, recuperare le necessarie competenze perdute e acquisirne di utili, con l’obiettivo di produrre evoluzioni cognitive, affettive, emozionali, relazionali e sociali, che consentano di muoversi costruttivamente e con agio nella propria realtà secondo norme sociali condivise, di partecipare al massimo livello possibile nella vita comunitaria, di recuperare la propria identità psichica e sociale, accrescere l’autosufficienza personale e l’assunzione di responsabilità per la propria qualità di vita. Intervenire quindi, sull’empowerment e col mainstreaming, per adottare terminologie del nostro tempo. Ma ciò potrà essere argomento di altro momento riflessivo.
Ad ogni modo, tutto ciò fin qui detto e ripetuto, è cultura pregnante dei caregiver e degli operatori psichiatrici di nuova o precedente formazione o esperienza? Di certo nuovo non è di per sé indice di garanzia, e vecchio, ovvero persona di esperienza psichiatrica, ma senza formazione riabilitativa specifica o contemporanea, non è necessariamente equivalente ad inaffidabilità, al contrario potrebbe essere fonte di un prezioso background se diluito in questa nuova dimensione, dove non è tanto l’estetica a cambiare, ma la sostanza.
In genere, la storia senza memoria rischia di ripetersi nelle sue brutture. Tutto ciò che è moderno oggi, non lo sarà domani; e tutto ciò che non è intrattenimento oggi potrebbe diventarlo dopodomani. Ma cos’è l’intrattenimento?! E ciò che dispregiativamente viene definito -l’intrattieni psichiatrico-?! Chissà quante righe e simposi occorrerebbero per dire tutto e il contrario di tutto, e chissà se si riuscisse a venirne unitariamente a capo. Ma potrà essere argomento di altro articolo. Qui preme solo osservare che l’intrattenimento se nasce come scopo ultimo, allora assolve positivamente al proprio compito, (in modo brillante o meno è altro discorso); se al contrario, è la sola cosa che produce un qualsivoglia intervento, allora, anche il più altisonante o con maggiori risultati di ricerca scientifica alle spalle, assume meno valore dell’intrattenimento in sé e non può che divenire un mezzo per giustificare la presenza di chi lo somministra o peggio, un becero strumento per gonfiare effimeramente il suo ego. Seppur bardato di ‘nuovo’ quindi, non si otterrebbe che un mal riuscito ‘intrattenimento scientifico moderno’. Una partita a carte o a scacchi scelta in libertà, condotta con impegno e leggerezza insieme, socializzando e svagandosi, conoscendosi e parametrandosi, è sempre un intrattenimento o lo è di più una partecipazione all’attività/laboratorio/training blasonato, ricercato, ben confezionato, che però viene vissuto con costrizione, o senza motivazione, o in modo distaccato, o senza la volontà di mettersi in gioco?… Un training può essere di per sé funzionalmente di crescita, oppure lo è quando è pensato, sviluppato e condotto in funzione delle specificità di chi dovrebbe svolgerlo?!
Il progresso non si trincera, non si schiera, non si chiude, né si socchiude, ma si apre, abbatte le barriere, i pregiudizi, è democratico e libero, accoglie e non esclude. Povero chi si arrocca alle proprie conoscenze e convinzioni, impedendosi di godere delle opportunità, ricchezze e conoscenze altrui, del passato, dell’oggi e del futuro.
Occorre acquisire responsabile consapevolezza verso un agire complessivo e organico di tutti gli attori e comparse che a vari livelli gravitano intorno al soggetto psichiatrico, un agire individuale ma non individualista, che si inserisca consapevolmente ed intenzionalmente in un progetto collegiale e unico seppur complesso, e dedicato al singolo individuo di cui ci si voglia prendere carico. Tenere ben saldo in mente quanto colpevole e grave sarebbe il non evitare nel possibile, che le esperienze positive vissute durante il percorso terapeutico-riabilitativo vengano negate e dilaniate da chi dovrebbe concorrere a fortificarle, e dall’ambiente familiare e sociale. Non è importante solo raggiungere gli obiettivi che ci si prefigge, ma anche in che modo si giunge ad essi: partecipa alle attività perché deve o perché stimolato e motivato?! Rispetta le regole perché intimorito o perché elaborate e trasferite all’interno della propria coscienza?! Prende cura di sé, o passivamente viene curato e gestito?! Banale che non esista solo il bianco e nero, vi sono infinite sfumature ed eccezioni tanto utili, quanto necessarie, nonché transitorie, ma l’impegno profuso, se non risponda a queste domande, verosimilmente risulterebbe sterile e autoreferenziante.
Stringendo il campo al settore istituzionale dell’assistenza, è vero che ogni operatore ha il proprio ruolo professionale e ad esso deve far corrispondere la propria opera, ma le abilità specifiche planano oltre il ruolo stesso e si espandono al contesto riabilitativo, se sapientemente adattate alla specificità delle situazioni e incanalate in una sintesi di unità con tutti i molteplici interventi messi in campo. Ogni operatore ha come primario scopo quello della riabilitazione del singolo soggetto preso in carico e non l’esecuzione ‘fredda’, se non cinica, eppur ineccepibile dei propri compiti contrattuali e perché no, dei dettami indicati dalle regole professionali del proprio ordine di appartenenza.
«Lavorare in psichiatria è altro. È entrare in relazione con l’Altro, forse di più che in altri settori della medicina. Accorgersi dell’Altro, dei suoi bisogni muti, coglierne le emozioni, i desideri spesso annichiliti dalla sua storia psichiatrica. Questa è la bellezza della nostra professione. Non è un aspetto poetico è professione, che ti appaga quando vedi un sorriso nell’Altro. Non è una missione, non la sappiamo fare, non possiamo permetterci di farla, la missione appartiene alla religione.
… Felici di far felici, con i piccoli gesti quotidiani, un saluto, una domanda: -ti serve qualcosa?, tutto “apposto”?- domande banali per la nostra quotidianità, ma essenziali per lenire o accogliere la sofferenza dell’Altro, domande che curano. L’Altro diventa te stesso. E quando gli risolvi il problema ne sei felice. Quando vedi il sorriso o la serenità nell’Altro, diventi felice. È la felicità. Non vuoi ricompensa, sai che non l’avrai, ma il solito cenno di sguardo, di gesti, di segnale di condivisione e ne sei felice.
È vero, le nuove procedure tecniche, le trasformazioni organizzative, le innovazioni diagnostico-terapeutiche sono fondamentali per fornire prestazioni sempre più mirate sulla persona. Ma … c’è dell’altro. C’è qualcosa che nessun corso di formazione, nessuna Laurea Magistrale potrà mai insegnare. È la storia di una vita… che si può trasmettere… e farne parte, non potrà fare altro che arricchire e far ‘acquisire gratuitamente competenze emotive e affettive che nessun corso di formazione potrà mai fornire. L’Amore verso l’Altro, accompagnato dalle competenze… Magia» (Franza, 2020) .
Il soggetto portatore di handicap psichiatrico è prima di tutto una persona, portatore di una soggettività anche se perduta, e di una specificità; e come ogni altro consuma la propria vita in ogni frangente, contesto, situazione… Tutto ciò che fino ad oggi, nell’aspetto più ampio, è stata l’assistenza socio-sanitaria (dalla farmacoterapia, alle attività offerte, alla cura degli spazi e degli ambienti della residenza), è sì per il soggetto, ma è anche del soggetto. L’assistenza porta potenzialmente con sé il subdolo potere di plasmare la persona senza che egli possa essere soggetto attivo, senza la possibilità né di incidere né di condividere consapevolmente un percorso, un esito, un obiettivo, una speranza; e troppo spesso non ci si rende conto degli effetti o dei non effetti che l’assistenza in simil modo imposta, provoca: l’esecuzione di compiti e le azioni quotidiane rivolte al paziente, degente, ospite, cliente,… (non c’è intenzione qui di accademizzare sulla terminologia), sono momenti che contribuiscono alla ricostruzione di intenzionalità, desiderio, autonomia, emancipazione…? Ossia favoriscono un cambiamento in positivo della persona con disagio psichico? Sono humus per lo sviluppo di una relazione sincera tra soggetti che si incontrano? C’è spazio per la reciprocità? C’è una prossimità psico-fisica reciproca e autentica, o una prossimità spaziale per il solo tempo strettamente necessario a svolgere l’incombenza inevitabile del momento contestuale?! È possibile affermare con certezza che al degente non sia solo consentito di attingere a limitate, determinate e convenzionali risposte con cui muoversi e scimmiottare una libertà fantasmatica?
Non è più giustificabile parlare di casi oggettivati, ma di casi calati nelle realtà singole, individuali e irripetibili del soggetto, che solo in tal modo può essere colto nella sua interezza, complessità e unicità.

Istituzioni di cura, sostegno o disdegno?

Gli operatori del mondo psichiatrico sono contro o a favore dell’istituzionalizzazione? Sono i migliori compagni di viaggio per combattere l’alienazione sociale o sono i peggiori? L’utilizzo di token per favorire alcuni e non altri comportamenti è progettato e finalizzato per il paziente o per chi lo elargisce? Ha uno scopo emancipante o è uno zuccherino istituzionalizzante che nella nuova logica riabilitativa, rende all’operatore- caregiver di turno, il trofeo dello specchietto da far brillare a testimonianza dell’autoreferenziante capacità di essere riabilitativo?
Quando si ricompensa chi si dovrebbe accompagnare nel viaggio del recovery con lo zuccherino caffè, sigaretta, pietanza abbondante, gioiellino destinato ad essere cestinato… per ottenere o una denigrante collaborazione, come ad esempio l’alleggerire propri compiti e doveri, o un riconoscimento personale che sostenga in alto nella insignificante, quanto evanescente graduatoria di gradimento da parte del paziente, si fa di lui una persona degna di diritti, di desideri, di sogni, di speranza, di possibilità? Oppure pietosamente o cinicamente si rinforza il ‘tetto di cristallo’, utilizzando a prestito il significato che ne soggiace nella dura lotta alla differenza di genere? Positivo il caffè, la sigaretta, la caramella… invece, se fosse condivisa come si farebbe con una persona considerata significativa, per non scomodare i concetti di persona amica o cara, e ovviamente salvando i casi limite in cui divengono mezzo ultimo per arginare contingenze particolari. Anche regali socialmente considerati più lodevoli, come dell’abbigliamento, oggetti tecnologici, d’arredo… sono conseguenza di una questua che solleva l’animo di chi lo fa, o sono accessori, pur utili o chissà indispensabili, che sostengono un sincero itinerario riabilitativo individuale. Nessun giudizio contro la questua o la pietà, ma chi opera nella e per la ri-abilitazione dovrebbe tenersene personalmente lontano e riuscire nel caso, a saper sfruttare al meglio lo slancio morale opportunistico altrui per renderlo terapeutico.
È essenziale organizzare e creare nelle residenzialità psichiatriche, (ovviamente in modo variabile di grado, intensità e pregnanza in base all’indirizzo che la struttura percorre), ambienti abitabili e non vivibili, degni di una residenza e non dignitosi, dai quali poter uscire e interagire con l’ambiente esterno alla struttura e non essere luoghi di clausura; e favorire l’instaurarsi di un’atmosfera psicologica e umana che restituisca al soggetto persona, presenze umane capaci di ascoltare e fare assistenza e terapia.
Quindi no gradini, transenne e simboli distanzianti e asettici; no ambienti uniformati e conformanti e a cui il soggetto non possa ascrivervi la propria firma; no luoghi inaccessibili solo agli utenti, mentre al contempo la loro privacy è inspiegabilmente sempre violabile dagli operatori; no sale mensa così poco inclini a favorire gli interscambi e il recupero di quei tempi e spazi propri della vita di ognuno; no, ove possibile, stoviglie e posate che non trovi in famiglia, persone che, seppur vivono con te, non siedono con te a consumare il pasto, anzi si distanziano; no, all’impossibilità di decidere e partecipare, nel possibile, alla scelta ed alla preparazione dei pasti.
La strutturazione della quotidianità deve essere precostituita ovviamente, ma non può essere rigida, deve mantenere sempre un faro acceso sulla sicurezza e tutela dell’incolumità di ognuno, deve rispondere ad esigenze organizzative, ma non prima che vengano soddisfatte quelle dei soggetti tutti presi in carico: accetteremmo una quotidianità scandita da esigenze altrui e per un tempo imprecisabile e imprecisato? Ne usciremmo migliorati e potenziati!? E’ prevista la riappropriazione di una legittima domesticità? Oppure si è e si deve essere ospiti silenziosi: un ‘buon paziente’? L’agire domestico e sociale della persona con sofferenza psichiatrica deve assolvere a favorire un senso di appartenenza all’ambiente e al mondo, e quindi fornirgli anche la possibilità di un potere costruttivo su di esso. Nel caso delle residenze psichiatriche ad esempio, chi vi soggiorna è un ospite nel senso che è in casa d’altri, o in quel momento è comproprietario morale di una ‘casa’ retta da sane regole sociali di convivenza e rispetto? È un cliente e quindi, commercialmente ha sempre ragione ed ha camerieri al suo servizio, o è un coinquilino che deve assumersi anche dei doveri?
D’altro canto, la vita di ognuno è costellata anche di emozioni negative, di scontri quindi, ricusando le acuzie e gli agiti, e perché allora, sottrarsi e rifiutare la normalità vissuta da chi si ha in carico. Gli operatori psichiatrici si adoperano contro la stigmatizzazione così tanto disprezzata o ne sono fautori? Solo attraverso lo sviluppo dell’empatia e non della proiezione identificativa, attraverso la dimensione della relazione e della reciprocità si può consentire al soggetto di ritrovarsi, di adattarsi evolutivamente alla propria disabilità e di lottare per una propria trasformazione. Tutto ciò né contro né a favore della farmacoterapia, ma semplicemente, coscientemente e lealmente con la farmacoterapia per controllare e/o eliminare la sintomatologia psicopatologica che in ogni caso incide ed è da ostacolo alla possibilità di ‘concentrarsi’ sul cambiamento per una migliore qualità di vita. L’approccio psicoeducazionale, psicoterapeutico e farmacologico devono convivere in un’armonica integrazione che si sostiene e si sviluppa nei periodici incontri dell’equipe multidisciplinare: psichiatri, psicologi, assistenti sociali, educatori, tecnici della riabilitazione, animatori, musicoterapisti, infermieri, operatori socio sanitari. Solerzia però, nel dare dignità e considerazione ai vissuti emozionali degli operatori, in modo da riconoscerli, valorizzarli ed elaborarli, poiché l’agire riabilitativo implica un continuo rincorrersi di stati emotivi e interscambi relazionali impegnativi, un’imprescindibile e perenne necessità di mettersi in discussione evitando in tutti i modi, d’incorrere nella tendenza erronea di giudicarsi o becera di giudicare. Rammentando che il prodigarsi per la riabilitazione psichiatrica, significa tatuarsi la cosciente frustrazione di dover spesso incontrare magri e poco duraturi progressi, cercando di mantenersi lucidi per scorgere i soggiacenti reali successi.
Ma cosa fare in pratica, come operare, a chi delegare, a chi additare, a chi scaricare l’arduo e discutibile compito di scegliere cosa, come e quando fare o non fare. Mi spiace, ma si è tutti parimenti coinvolti, ognuno con le proprie competenze, esperienze e sensibilità, avendo cura di accogliere, non scavalcare, non mettersi al posto di, e favorire un sentirsi liberi di essere, di esprimersi, di sviluppare interessi e creatività, di socializzare, gestire e utilizzare il tempo invece di vederlo trascorrere.
Quando plausibile, una buona prassi è pianificare incontri ‘alla pari’ (mantenendo lo sguardo al compito terapeutico) tra utenti e operatori, in cui ognuno venga chiamato a dare il proprio contributo per confrontarsi, decidere, discutere e gioire di ciò che appartiene alla vita dentro e fuori la residenza. Tali momenti d’incontro potrebbero, se ben gestiti, favorire la nascita e il mantenimento di quel clima così ambito e definito terapeutico. Non è confusione di ruoli, non si perde prestigio (non ve n’è da conquistare, né da rinforzare), non si perde rispetto e stima, ma se ne acquisisce se si è autentici e vicendevolmente rispettosi.
Inoltre, pur rammentando che il buon umore è favorevolmente terapeutico, è rilevante sottolineare che il compito primario di alcuno è quello di far ridere o fare cose divertenti, ma far sì che gli utenti ritrovino il sorriso; non è fare cose espressive, ma far sì che gli utenti si esprimano; non vi sono attività che diano senso al professionista, ma è lui che dà senso a qualsivoglia attività; non vi è luogo che gli dia importanza, ma è lui che dà importanza ai luoghi.
Il ri-riabilitatore non si pone al di sopra delle persone, ma è con loro nel cammino verso una qualità migliore, riconosciuta e vissuta dalle persone stesse.
Non abbracciare il dogma del formalismo, del rapporto docente maestro – discente discepolo; molto meglio e interessante sarebbe sperimentarsi nell’Edutainement e sgretolare quell’austerità effimera utile spesso, solo a proteggere insicurezze e incapacità proprie. Occorre comunicare, no informare. E consapevoli dell’imperfezione umana, continuamente ad adoperarsi nella verifica della propria abilità comunicativa e il desiderio di plasmarla affinché tenda a divenire sempre più efficace e puntuale, capace di essere all’altezza del momento e del contesto. Attenzione, affinché le buone pratiche non vengano tradotte, come capita di osservare, in una psichiatria scolastica. E parimenti contrastare le convinzioni di quei numerosi che ritengono il riabilitare, abilitare, educare… una malfatta imitazione delle pratiche tipiche della scuola dell’infanzia: seppure l’alveo in cui ci si muove è il cambiamento, l’agire deve modularsi peculiarmente alle specifiche di età, cultura e sviluppo della persona a cui ci si rivolge (un adulto non è un bambino ad esempio); peraltro, opporsi anche a coloro che rincorrono a una grossolana emulazione delle serate show dei villaggi turistici, in cui il numero degli spettatori o comparse diviene la misura e fine ultimo ed evanescente che si accompagna all’ego narcisistico di chi riesce a ritagliarsi un inconsistente momento di protagonismo e di gloria. Evitare di rendere noi stessi il metro di confronto, la nostra esperienza vissuta la verità, gli altri oggetti su cui agire pietosamente, o bambini su cui poter esercitare la potestà genitoriale senza il rischio che l’avanzare del tempo ci obblighi ad accettare il giungere di un periodo di adolescenza che dovrebbe condurre poi, all’avvento di adulti alla pari.

Conclusioni

La riabilitazione è un processo che deve condurre alla costruzione di un percorso di vita e non alla somma di abilità o conoscenze. L’agire riabilitativo deve produrre una nuova dimensione del tempo, dello spazio e della relazione; esiste nella valorizzazione riabilitante del quotidiano e in esso della domesticità; crede nella compartecipazione più elevata possibile del soggetto alle varie fasi del progetto riabilitativo; sostiene il diritto della persona ad essere sé stesso, di poter adottare un proprio stile ed una propria modalità funzionale di vivere nel mondo, anche se esso potrebbe non collimare con i criteri propri della ‘normotipicità’; si alimenta nella personalizzazione degli interventi e degli approcci: la persona, il suo contesto ambientale, familiare, comunitario sono il terreno su cui innestare gli interventi e le tecniche note o nuove che si valuteranno opportune; e si perpetua nella continua verifica, correzione e assestamento del processo.
Ma dove e come acquisire le informazioni necessarie a orientare e orientarci per individuare il sentiero verosimilmente più opportuno? Indubbiamente la prossimità fisica, emotiva e cognitiva restituiscono un punto d’osservazione privilegiato, quanto difficile e irto d’insidie, ma anche stimolante e creativo per chi lo voglia e lo riesca a sostenere.
La riabilitazione di prossimità ha una visione in orizzontale e un procedere in reciprocità, in cui l’ascolto attivo e autentico trova il suo naturale spazio, e il saper gestire e dosare l’aurosal proprio e altrui riveste un influente e usurante peso. Paradossalmente la visione in quota fornisce una prospettiva più ampia, più completa, ma diventa fuorviante se non consapevole di un vissuto pratico, concreto, ravvicinato e osservabile in orizzontale. Non è un procedere miope, ma un procedere in piano evitando il rischio che la riabilitazione venga vissuta come altro, distinto e distante da chi ne dovrebbe usufruire; un’opportunità per scongiurare, a chi dal basso alza lo sguardo verso la riabilitazione che giunge e guida dall’alto, che forse ancora peggio, verosimilmente accumuli un senso di inappropriatezza e che quando si affidi fiducioso, forse delegando e attendendo soluzioni solo esterne da sé stesso, rinunci a leggersi, conoscersi, per cambiare e non cambiarsi.
La psichiatria di prossimità possiede un raggio d’azione, che se autenticamente vissuto, è tale da agevolare un fluido e graduale distacco da un sé depersonalizzato indotto dall’autostereotipizzazione in favore dell’ingroup a basso status di appartenenza, quale quello psichiatrico. La vicinanza di una presenza riconosciuta, affidabile e coerente restituisce maggiori margini di successo quando si agisce per rendere saliente il sé personale, indipendentemente dallo status sociale in cui ci si categorizza e stereotipizza, e quando il fine non contempla primariamente lo svanire della strategia cognitiva di difesa per la sopravvivenza che ne deriva, in assenza di altra equivalentemente esperita solida e funzionale.
Un tale approccio riabilitativo inoltre, riduce il rischio del triste orrore di aver pena per le persone a cui si tende una mano, lasciando spazio ad una sana rabbia per la carenza o mancanza del giusto aiuto di cui la persona abbisogna, per la scarsa ed evanescente attenzione che riceve, per un ambiente non aperto e disponibile, più che accogliente; e agevolando lo sviluppo di una sana forza reattiva per obbligare il sistema, l’ambiente ad uscire dalla ipocrisia e riempire di contenuti l’inclusione così abusata propagandisticamente. Colui che progetta, implementa, accompagna, sostiene e valuta un percorso ri-abilitativo che non crede lui per primo alla forza resiliente di ognuno, alla possibilità della persona a cui ci si rivolge di giungere ad un miglioramento, non può che vedere nell’altro ciò che per il senso gretto comune, è un matto, un pazzo.
La vita quotidiana di ciascuno è anche pratica e spicciola, costellata da dettagli socialmente secondari, ma che sommati insieme spesso, colorano il vissuto e l’esperito del singolo. La prospettiva della psichiatria di prossimità agevola la possibilità di coglierli e di conseguenza conoscere quanto tutto ciò possa divenire la misura che determina la scelta di percorrere una strada forse più lunga, più costosa, più incerta, ma vissuta più percorribile perché meno ignota, o semplicemente perché con meno buche, meno tornanti, che non richiede una guida esperta, meno scivolosa, senza la necessita di un mezzo di trasporto sofisticato ma semplicemente usando le proprie gambe, o ancora perché il tragitto è meno angusto, più paesaggistico e perché no, più romantico. Spesso quelle minuzie inezie sociali determinano quel fardello di reticenze che annebbiano i colori di ogni vita.

Ferrara I: Psichiatria di prossimità . In: Telos, no 2, 2021. (Tipo: Journal Article | Abstract)

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