Filosofia e Psiche

Il valore del paziente e i limiti delle scienze psichiatriche

Gino Aldi
Medico Chirurgo, Psicoterapeuta

Il dominio della mente esercita un fascino enorme sulla coscienza umana. L’idea di possedere una via di accesso alla mente altrui, di poter solcare i labirinti segreti in cui si compongono i pensieri, nascono i desideri, si delibera l’agire umano, è il richiamo delle sirene che spinge molte persone a diventare psicologi o psichiatri.

Vi è in questa scelta una sottile venatura di onnipotenza che solo un lavoro paziente e anni di formazione svolta bene riescono a mitigare. Curare la mente è più affascinante di curare un corpo inerme. Salvare una persona da dolore entro cui egli si è perso è molto più di somministrare semplicemente un farmaco o svolgere un intervento chirurgico.

La mente rimanda al mistero, a quel non so che di insondabile che spinge il clinico a inoltrarsi in terreni ignoti e complessi. Ogni paziente, al primo colloquio, appare come una sfida che incute al tempo stesso timore ed eccitazione. Ogni inizio di trattamento rinnova una sfida che appare sempre nuova e sempre ardua. E’ questo punto che rende interessante il lavoro dello psicologo o dello psichiatra.

La frenesia di conoscere l’inconoscibile rende gli esseri umani voraci e prolifici. Accade per qualsiasi forma di conoscenza: ci inventano strumenti, metodi, tecniche. Si discute, ci si confronta, si litiga, si concorda! Tutto ciò nello sforzo di raggiungere certezze. Perché la certezza è l’unica medicina che placa l’ansia dell’ignoto e rende il viaggio verso la conoscenza meno gravoso.

Accade allora che per conoscere la mente dei pazienti inventiamo metodi, tecniche, protocolli e percorsi. Cerchiamo di uniformare le nostre pratiche in filosofie condivise, di silenziare i dubbi e ancorarci alla convinzione, spesso illusoria di aver compreso il prossimo, di aver colto il senso del suo modo di essere, di possedere perfino le soluzioni adatte a risolvere la sua sofferenza.

La certezza di verità ci è necessaria per formulare protocolli di trattamento, senza un orizzonte interpretativo non potremmo far altro che navigare nel caos insieme al nostro amato paziente. Eppure, non di rado, proprio queste certezze ci allontanano dalla persona che stiamo curando. Proprio la frenesia di irreggimentare i suoi vissuti, i suoi racconti, il suo modo di essere in categorie precostituite, genera incomprensione e distanza con l’interlocutore. Convinti del proprio verbo si comincia a pretendere che in qualche modo il paziente risponda ai nostri requisiti piuttosto che al proprio personale modo di vivere dimenticando che proprio la difficoltà di essere diverso da ciò che egli è lo ha portato nei nostri studi professionali.

La degenerazione, non infrequente, del modo di approcciare al paziente trova radice nella pretesa di possedere le chiavi interpretative per comprenderlo. A quel punto la riottosità al cambiamento diventa “resistenza”, “mancanza di motivazione”, “Superficialità”, “Disimpegno”: tutti termini che possiedono un’altissima connotazione moralistica e giudicante. Il paziente scade ai nostri occhi, l’alleanza sfuma e la nostra impotenza a curarlo diventa rancore, a volte sotterraneo altre volte esplicitamente espresso.

In queste circostanze, frequenti per chi affronta il lavoro di cura della mente, occorrerebbe ricordare a noi stessi del valore intrinseco di ogni paziente, del fatto che ogni umanità, anche la più sfuggente e la più distante dalla nostra etica, merita rispetto e attribuzione di valore. Il riconoscimento di questo valore intrinseco, dovuto all’animo nobile al pari dell’animo crudele, ci consente di approcciare al prossimo conservando quella umiltà e quella consapevolezza che, in fin dei conti, della mente sappiamo ancora poco, se non pochissimo. Pertanto colui che resiste al nostro richiamo, che rende fallimentari le nostre cure e ci ricorda che non siamo onnipotenti non merita i nostri strali quanto la nostra curiosità umana e scientifica, la coscienza dei nostri limiti e dei limiti dei nostri strumenti. In tal modo chi resiste alle cure non diventa nemico e tantomeno entità orribile ma rappresenta quell’orizzonte che non sappiamo ancora solcare, quel mare in cui non riusciamo a navigare, un mondo da scoprire e rispettare.

Ricordare i limiti dei nostri mezzi non significa sminuirne l’utilità ma permette di coniugare il bisogno di certezze con il valore del dubbio, dell’incerto, del mistero che mai abbandona lo scienziato.

Vivere tra eterni dubbi e alcune certezze è la condizione ottimale per svolgere bene il lavoro di cura. Una condizione da cui troppo spesso si fugge eppure così foriera di benessere per chi la vive e per i suoi pazienti.

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